mercoledì 21 novembre 2007

Immagini da “La Catedral” di Barrios di Giuseppe Chiaramonte

Una enorme piazza deserta, al crepuscolo. Di fronte la facciata enorme della cattedrale gotica che punta contro il cielo i suoi artigli di pietra. I mostri stanno dormendo, non si può fare rumore, meglio non destarli. Il cielo prelude ad una notte sepolcrale, che silenziosamente ghigna, ma non si fa sentire, perché nell’aria non deve spargersi il timore dei mostri dell’inferno. Il medioevo è lontano e inoffensivo come una mummia rinsecchita dagli anni. Non rabbrividisce più la nostra schiena al rovistare della derelitta cagna. Sentiamo però il desiderio di immedesimarci in un atmosfera irreale, vogliamo più di ogni altra cosa essere lì, in quel tempo, prima che in quel posto. Al sicuro però del profondo distacco che gli anni hanno creato tra noi e loro, quelli che sognavano la notte, negli incubi, i mostri della cattedrale. Così però la mostruosità diventa cinematografica, e i raggi inclinati del sole freddo di un autunno nordico scolpiscono sulla pietra della cattedrale un aureola che evapora e si spande verso l’alto, verso il cielo, per ricongiungersi con l’autore di quella maestosa opera non terrena. In attimi che durano un’eternità stacchiamo l’ultimo passo che ci separa da quella porta buia per entrare dove è sempre notte.
I nostri passi segnano il tempo nel religioso silenzio che regna in quella gola profonda. Passi lenti, come il tempo nella cattedrale, lentissimo. Poche le vetrate che al posto della luce portano un senso di divino, come il barlume mobile di una fiamma. La fiamma del camino nella stanza del Signore. Siamo nella sua dimora e tutto intorno lo dimostra. Non osiamo guardare in alto perché in quella casa il cielo è troppo alto. Ed enormi alberi di pietra lo sostengono. Ci avviciniamo alla scanno più vicino per sederci, con la stessa lentezza. Aspettiamo una pausa. E la pausa arriva. Sono i passi dell’organista, molto più veloci dei nostri, molto più sicuri, molto più agili; i suoi passi sono la pausa perché non arrivano a tempo. Le nostre immagini si fermano, e il nostro pensiero. Solo pochi istanti. L’organista invisibile, lo immaginiamo magro, alto, grigio, senza un volto. Solo le mani, mostruosamente precise sui tasti. Macchiate di vecchiaia con le vene senza più linfa. Solo le mani sono nitide al nostro pensiero.
Il suo virtuosismo incorona regina la maestosità. D’incanto ci immobilizza. Non ci sono più le vetrate, non le colonne. Non il pavimento. Non ci sono gli scanni. I nostri occhi sono troppo lenti per seguire ogni immagine fantasma che si forma per ogni nota dell’Allegro solenne, che di allegro non ha neanche il nome. Il buio fa spazio ad una sensazione indistinta di visione onirica troppo reale per essere divina. Sull’ultima nota qualcuno ci sveglia e siamo già lontani, nelle nostre case, magari sul palco del nostro concerto, dove il nostro pubblico ci ringrazia, per averlo trasportato nel medioevo buio, su una lunga preghiera, maestosa come una cattedrale.





Giuseppe Chiaramonte

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