giovedì 27 novembre 2008

Fauvel presenta 'Il liuto scomparso', un racconto di Sergio Pes

A pochi chilometri da Oxford il cielo scialbo di mezza estate s’è fatto d’improvviso immobile, si è teso, come la membrana di un otre ricavato dalla vescica di una pecora. Ed è venuta giù in frantumi una pioggia torrenziale, fitta e pesante, perpendicolare al terreno.

Nel fango del viottolo un gruppo di viandanti. Procedono in silenzio, a testa china, qualcuno alla cavezza conduce un asino appesantito dal basto e dall’acqua. Chi ha poco bagaglio è una cosa sola con l’asino che cavalca. Procedono in un giorno di luglio, senza scorta, la vita racchiusa nel mantello fradicio, non si conoscono. Li ha uniti casualmente la pioggia, la speranza della meta li sostiene. C’è un mercante, e c’è un ebreo, c’è forse un francese che non se la passa bene, o forse uno spagnolo, non sempre è possibile distinguere il sussiego di uno da quello dell’altro. C’è una donna giovane e brutta, con un muso da maiale, a cavalcioni sull’asino, i capelli scialbi disfatti dalla guazza, in compagnia di un riformato dal viso tetragono che la precede a piedi, a capo scoperto, con la barbetta a punta da capra, e la bibbia foderata dentro il mantello.

Tra loro John Dowland. Il XVI° secolo sta per tirare le cuoia, anche Dowland, il più grande liutista della terra, prigioniero della strada e della pioggia. Ha un grande cappello con larghe falde sulla testa, la pioggia ci gioca sopra e si rovescia a tratti nel fango del viottolo, come da una sorgente sbuffante, come da una grondaia garrula. Sbuffa ed ansima anche John Dowland, oppresso dall’idea della morte, dall’immenso fiume di lacrime che scivola dalle gote del cielo. Oh semper Dowland, semper dolens. Ogni goccia è una tortura, ogni singola goccia, un ostinato battere. Scoccasse la folgore, qui tra questi alberi lungo il sentiero, salisse per la via e incenerisse l’anima nera e malinconica dell’artista depravato. Ma non teme così la vita chi non teme così la morte, e intanto il liuto panciuto, leggero, il più bel liuto di Bologna, con la bandora più piccola e una vihuela spagnola, sprezzante pure se stonata, sta chiuso in una cassa caricata sul mulo, e soffre, soffre, con i suoi musici amici soffre l’umido che si insinua sotto la mantella di cuoio e l’altra in pelle di vacca. Previdente, lo ha avvolto con una stola di giaguaro, regalo di un nobile che ha amato accanto al fuoco di un caminetto. Un amore proibito che ora lo sconvolge in un quell’oceano che s’è fatto il cielo e la terra. Lacrime, lacrime sulla sua anima nera e viziosa. Farewell.

Addio, addio, che può esserci ancora celato tra le vibrazioni allusive degli intestini d’agnello tesi su una tavola di pino. Immagina il sangue di un animale vergine, sventrato, la linfa di un albero che spilla da un tronco che verrà piallato senza pietà. Anche il suo strumento così non è che una morta natura che dorme senza sogni in una cassa, e ora oscilla tintinnando sgraziato. Allunga l’orecchio per cogliere la vibrazione. Forse no, forse non sogna, si lamenta. E’ vivo e morto quanto lui, anima senza pace. Lacrimae lacrimae, pioggia pioggia senza pace. E, previdente, tutto intorno alla pelle maculata ha disposto i suoi manoscritti, quelli terminati e pronti per la stampa, i moltiplicatori della sua malinconia, e della fama che lo lusinga e lo bracca come una animale selvaggio. E intorno ancora ha stipato la carta con i suoi pensieri musicali abortiti e altri scartafacci che potrebbe riempire, se non piovesse così sulla sua vita, di note. Non è tranquillo, spia i rigagnoli dell’acqua che scorrono sulle mantelle che ha steso sulla cassa.

Quell’acqua è mortale, trovasse la strada per intrufolarsi, il liuto morirebbe. Ma adesso un nano, gli sembra l’ultima malinconia della giornata, a cavalcioni dell’asino più grosso, spunta dal gruppo, accelera nel fango e conquista la testa della spedizione, e ne diventa il leader. All’improvviso alza le mani, senza proferir parola udibile al più fine orecchio ( e quale fine e nobile orecchio è mescolato all’inesausta brigata ), dalla manica lercia del saio fradicio che lo copre spuntano dita deformi, volteggiano nell’aria in quel modo goffo proprio dei nani, sembrano quasi danzare, ma anche indicare qui e là.

Adesso è chiaro anche per Dowland, la voce corre tra i viandanti: “Per grazia di Dio un’osteria a pochi passi di cammino conforta i pellegrini, qui dritti e poi per que-sta via traversa”.

E infatti si sbuca ad un incrocio. In un marasma di fango e pozze d’acqua, di fatto esattamente al centro, si erge un palo ad indicare la via: di qua per Oxford, di là per… prodigio! un minuscolo gatto o forse donnola, col pelo rosso ruggine, spunta da un lato, si lancia su una pozza e lambisce l’acqua con una lingua che sembra una scintilla. Alza la testa, e fissa temerario la piccola folla macchiata di pioggia. E’ inevitabile provare un brivido. Fa un balzo e sparisce. In direzione per Oxford. Si sceglie senz’altro l’altra strada, si va per l’osteria.

Ho visto il diavolo, e non è la prima volta” pensa Dowland e a noi è lecito ipotizzare che non sia il solo. Oxford ora aspetterà, impensabile azzardarsi per quella via per la quale il diavolo già marcia sinuoso ( alla prossima tappa, per il viandante che osasse temerario seguirlo, la donnola si trasformerebbe in una donna bionda, col seno nudo, turgido per la pioggia ).

La compagnia ora comincia in modo impercettibile a sciogliersi, da quell’unico corpo che un attimo prima appariva. Compare già la sagoma dell’edificio scuro, col tetto che fuma, la grondaia allegra, garrula d’acqua che scorre giù per un canale e poi sparisce ingoiata in una fessura di pietra, laggiù nella cisterna. Ora la comitiva si spezza in un disordine fumigante, sul viottolo che si restringe la sciagurata insolenza di sempre: chi ostenta una spadino può passare per primo.

E’ sufficiente uno sguardo e il gentiluomo franco spagnolo è davanti e già imbocca con la sua povera cavalcatura la stalla. Il nano è l’ultimo e soffia le sue bestemmie, ma piano perché il riformato, impassibile, è accanto a lui. Dowland reprime l’ansia di primeggiare, primeggiare sempre, dall’infanzia. Ma ora può farlo, gli si forma una smorfia al lato delle labbra mentre, la mano nella tasca, palpa il sacchetto pieno di ducati. Il mondo è volgare, e lui, volgarmente, ne ha la chiave. Può lasciarli scorrere tutti, troverà una pergola anche per il suo somaro, e il fieno.

A lui, al riparo, va benissimo un angolo buio, e non fa il difficile se non è proprio pulito. Ma avrà il vino migliore, e selvaggina, e il pane bianco, e l’indifferenza accorta e rispettosa di tutti. Ad uno ad uno vede i pellegrini sparire chi nella stalla, chi in certe botteghe affumicate ai lati dell’osteria, chi, come il nano, quasi rotolasse sulle gambette, dritto e diretto alla canna della botte, a succhiare il sangue come un pidocchio d’inverosimile dimensioni.

Dowland ha il tempo di guardarsi intorno: l’osteria è modesta, si vede che i padroni succedutisi nel tempo ( sempre così in queste terre misere, pensa, chi può resistere a lungo? ) hanno ingrandito in modo disordinato il nucleo centrale con celle irregolari, dove si immaginano, oltre i muri sforacchiati di muffe e radici che li scavano, cubicoli popolati da puttane pidocchiose, giacigli sporchi dove si ammassano viandanti ubriachi, strozzini ebrei ossuti e abbarbicati alle bisacce e al coltello che fanno scintillare ( sottratto con l’inganno ad un nobile, si sa, a un giocatore incallito ). Palpa i ducati silenziosi chiusi nel sacchetto di pelle: per lui troveranno un angolo discreto, e i ladri staranno alla larga, e anche le puttane. Confida sul suo spadino, il suo vero angelo protettore. Ma ora può darsi che spiova. John osserva la cappa grigia che fascia il cielo su di lui, piega le labbra, cerca un sol come fa quando accorda il canto del liuto, e fischia. Dalle falde del cappello di cuoio si abbatte un rovescio d’acqua, ed è attraverso quello che gli appare. Gli appare di colpo, rapido come un tempo di giga, sembra già che sia esistito da sempre, ovvio come il pianto del temporale. Sa già di mallo di mandorla, umido e poco amaro, addentato un giorno in un giardino. Il bambino sguazza nelle pozzanghere e ride, impercettibilmente, mentre accorre al suo fischio, per tirar via l’asino del più grande liutista del mondo al riparo della stalla. John osserva il bambino col viso di sbieco e leggermente inclinato ( è così che lo tiene mentre suona, serio, gli occhi fulminanti dritto negli occhi di chi lo ascolta), ma ora tra le ciglia gli si sono impigliate lacrime di pioggia che domani fioriranno sulle intavolature dei più nobili incisori. Per ora è solo un attimo, il balenare luminoso di questo bambino scalzo, con i polpacci che sguazzano, i capelli castani disegnati dalla pioggia sulla testa perfettamente tonda. L’asino scrolla le lunghe orecchie mentre il bambino lo porta via. E così al grande liutista sembra portato via un dente, una costola, qualcosa gli viene lacerato e sottratto dal bagliore del polpaccio che la pioggia amplifica. Per questo schiocca ancora le labbra a trattenere il ragazzo e nel palmo fa comparire una piccola moneta brunita, una moneta bambina. Con le dita affusolate che hanno fatto tremare l’anima di depravati cardinali, di tetragoni e cupi principi riformati, fa ruotare su e giù la moneta sotto il sorriso del bambino che abile l’afferra. E ringrazia, la voce sottile che gli vibra nella gola madida. E si allontana, e più volte si gira mentre l’asino, che sente la paglia ed assapora l’asciutto della stalla, la cosa che più desidera al mondo, raglia e sospira. I corti calzoni rappezzati troppo larghi per quel corpo così minuto portano via l’ultimo amore di Dowland. Ci sarà tempo, dovrà esserci tempo, qualcosa dovrà pure bucare la tetra malinconia dell’artista. Rabbrividisce e osserva il cielo. Il tragitto è stato lungo e faticoso, incessante il temporale. Come l’asino, pensa, è ora di darsi a ciò che il corpo più desidera al mondo: s’avvia verso l’asciutto tepore dell’ostello.

Già prepara un’altra piccola moneta per il ragazzo che spingerà la seggiola a un desco adeguato al suo rango. E invece, come ha varcato la soglia della casa che lo accoglie buia e fumosa, lo sfiora una pelliccia. E’ sorpreso e d’istinto gli cade la destra sull’elsa della spada. La figura che l’ha sfiorato esita: è minuta e dritta sulle gambe, eppure non è del tutto umana. Ora s’avvede che è una donna, una ragazza esile, ma ricoperta di una insolita peluria persino sul viso, anzi una vera pelliccia, che tende al rossiccio. L’animale-ragazza sa bene la reazione, dà all’ospite giusto il tempo d’intendere e d’intuire. Solleva le braccia sottili foderate di peli castani, che sfiorano l’artista mentre lo spogliano del mantello ormai fradicio. Dowland toglie il cappello e accenna ad un inchino. L’ animale-ragazza è seria, non sorride, accenna un goffo inchino e trascina via gli indumenti dell’artista, senza girarsi, chiusa nell’odore ferino della sua bizzarra natura menomata. Il vino, un vino che si immagina torbido e limaccioso ha già preso a scorrere tra le panche che circondano quattro o cinque modeste tavolate. Mescolati in apparente disordine rispetto alla sequenza che tenevano sotto il bordone della pioggia, Dowland scorge i suoi compagni di strada. Il tossico veleno che riempie rozzi boccali di legno scalda e ammorba gli umori naturali di quella gente. Persino il riformato addolcisce il grugno impassibile in una smorfia da ebete, e così non può vedere i grandi cucchiai di fagioli sfracellati che la donna-maiale a cui è accoppiato si ficca nella bocca. Né può vedere come gli occhi piccoli e acuminati della donna impudicamente si impiglino qui e là sulle forme dei servi che rimestano il vino nelle brocche. L’ebreo invece è soddisfatto e rutta incurante delle tre puttane che gironzolano tra i tavoli sbocconcellando tozzi di pane in un scia di odori muffosi e ripugnanti.

Dowland si avvicina al camino: più tardi, se ne avrà voglia, farà ballare tutti al ritmo di una giga. Ora gli basta fare un cenno col palmo teso della mano ai due ragazzetti ( uno è il suo nuovo amore, Ben, sente che lo chiamano Ben, Ben il suo nuovo insperato amore!) che ritornano dalla stalla con il suo prezioso bagaglio. Piano, qui delicatamente, così indica la sua mano sottile.

Le due casse che fanno il suo bagaglio sono deposte al suo fianco. E Ben si accuccia accanto a lui e gli sorride docilmente. Gli dà subito un ordine per metterlo alla prova. Vuole una seggiola, mangerà pochi bocconi di lesso accanto al fuoco, se Ben gli porterà una seggiola e uno sgabello dove poggiare alternativamente lo stivale e il piatto. E poi una brocca d’acqua, ma che sia fresca e non limacciosa, e che non sia la brocca da cui beve il gatto, suvvia Ben, la brocca.

Stai qui, stai qui, ragazzo. Non vuoi sapere che cosa c’è in quella piccola cassa decorata e tutta chiusa dal cuoio? Non vuoi, Ben? Ma il tramestio frusciante e il bisbigliare del liutista più famoso della terra non passa i-nosservato, né alle puttane, che sputano innervosite sull’impiantito coperto di segatura, né all’oste che fa un cenno con l’indice all’animale-ragazza.

Lasciami, Margaret, piagnucola Ben. John Dowland alza un sopracciglio e fa cadere una moneta lucente sul palmo dell’animale-ragazza. E, sorpresa! scopre che il palmo è privo di peli. Ben serve un signore rispettabile, soffia Dowland, sottile come una serpe, dritto nell’orecchio dell’infelice Margaret. E da quale altra sorpresa il liutista è colto nell’osservare il piccolo e delicato orecchio ricoperto da una fitta pelliccia che l’animale-ragazza nasconde sotto una chioma fulva odorosa di rosmarino. Margaret non sa che fare, lancia un’occhiata all’oste, e intanto chiunque può vedere che gli brilla la moneta tra le mani. L’oste la richiama, ormai tranquillizzato, e tutti, mescolati al fumo d’alcol e di legna umida, possono riprendere il pasto e caricarsi d’indifferenza, il cliente ha pagato con una buona moneta d’argento un servizio esclusivo. Ma Margaret ancora tentenna, non riesce a staccarsi, anche se l’oste si sbraccia perché vuole la moneta, e subito. Margaret osserva la cassa, è curiosa e forse ( quante ne avrà viste di simili ) sa già cosa contiene, e vorrebbe stare ancora lì. A fatica si stacca e consegna il dovuto al padrone. Ma non può levare gli occhi dalla coppia che sta ora isolata e parlotta nel calore e nella luce del camino, mentre lei è costretta a versare il vino nei boccali. Tende le piccole orecchie graziose che hanno così stupito il grande maestro, e lancia infelici occhiate. Non ode una parola nella confusione dei mestoli di legno che si abbattono sui fagioli e dei boccali di coccio fetidi di feccia. Quasi piange in silenzio come le è solito dall’infanzia, e quando si passa il dorso della mano, con un gesto inavvertito e abituale, sulla bocca e sul volto, piccole gocce rimangono impigliate come minuscole perle alla pelliccia castana che corre sino alle dita. Alza ancora gli occhi nell’atmosfera fumigante. La luce diurna sui campi d’Inghilterra sta lentamente spegnendosi, le scialbe meridiane si abbandonano al buio, il pianeta ruotando su se stesso s’oscura. Da un pezzo le imposte sono scure e le lanterne avvolgono ogni cosa di fumo e luce rossastra. Le ombre si moltiplicano confuse e deformate, e anche il liuto, che Dowland ha estratto dalla custodia, triplica per un attimo la sua enorme pancia sulle pareti prima che il maestro lo imbracci. Ora lo tiene saldamente contro di sé, lo forza ma non lo sforza come vorrebbe con il suo piccolo Ben. Lo tasta e lo prova, ma deve accordarlo. Tende i piroli e saggia gli intervalli. Il liuto singhiozza, si scrolla di dosso il sonno angoscioso dell’acqua che lo opprimeva da ogni lato, i suoni ora alti ora bassi sembrano inseguirsi, disarmonici e balbettanti.

Ma ora è pronto, suona e subito canta. Il piccolo Ben sorride, trema dal piacere che prova per il dono, questo Ben l’ha capito, che il signore gli fa suonandogli il liuto. E’ un emozione che non aveva mai provato: i piccoli e angelici squilli del liuto capovolgono la realtà, annullano il marasma e il chiasso che hanno oppresso le orecchie di Ben, sono più forti. Fluiscono gli armonici, lavano via gli stracci che coprono malamente lo sfortunato bambino, sulla pelle nuda del piccolo i lividi si sciolgono, e le sferzate. Si torce le mani, tende gli avambracci, li stringe tra le gambe, sgrana gli occhi, si lascia prendere dagli occhi neri, dallo sguardo profondo del liutista, e poi li distoglie, e poi è ancora preso. Il preludio si inerpica sul cantino, si abbatte sul bordone, e Dowland ora canta. Flow my tears fall from your springs, exilde for ever. Let mee mourne where nights black bird hir said infamy sings
La musica cresce di volume, occupa tutto lo spazio, raggiunge ogni angolo della stanza: da quale spiraglio della vita penetra e s’impone all’attenzione di quella combriccola di esseri volgari, distraendoli dal miserabile desco su cui pasteggiano? Conquista l’attenzione e il silenzio, rivela la vera natura degli uomini: il nano non beve più, l’ebreo allenta le corde della borsa e schiude le labbra sottili a forma di O, il riformato russa mentre la sua compagna dagli occhi porcini si sfiora il seno piccolo e irregolare. La pelliccia della ragazza-animale-Margaret si copre di piccole gocce di sudore, ha il viso stravolto, strofina i boccali a testa china e copre gli occhi con lo straccio. Indistinti commensali nell’ombra oscillano la testa e poggiano i boccali con insolita delicatezza, e persino il nobile franco-spagnolo perde parte del suo sussiego, si alza dalla panca e abbozza un bizzarro inchino sventolando il largo cappello macchiato dalla pioggia che s’era tenuto in testa, solo l’oste continua a contare le monete. La canzone all’improvviso finisce e il desiderio di Dowland vibra tenue e grave nell’ultima corda del liuto, s’adagia sull’onda calda che soffia dal camino, lambisce le labbra morbide e rosse, socchiuse per la sorpresa, del piccolo Ben, l’apprendista stalliere. Dowland ora gli sorride. Vuoi vederli girare come delle scimmie, Ben?

Il liuto s’anima di colpo, imperioso detta legge al tempo. La giga che il liutista suona provoca una danza improvvisa e sfrenata a cui nessuno può sottrarsi: ombre animalesche si intrecciano sulle pareti dell’osteria, si accoppiano selvaggiamente, eppure sempre d’uomini si tratta che nel mondo reale dei corpi battono le mani, si sfiorano appena senza toccarsi davvero.

Ma non così, non così per chi dal basso della sua piccola statura, dal punto di vista del nano, anzi per il vero ancora più in basso poiché siede appoggiando la pancia piena di vino al suolo, così in basso osserva la scena: le ombre si intrecciano, si sovrappongono, creano forme fantastiche di animali a tre teste con sei braccia e altrettante mani che ingigantiscono nella frenetica danza, si poggiano su fianchi enormi, calano come schiaffi su sagome ipertrofiche. Ben ride, ride, non può smettere di ridere, mentre Dowland gli strizza l’occhio e cambia ritmo: una severa pavana costringe la compagnia ad una serie infinita di inchini e riverenze, a Ben sembra una processione di Orsi nella foresta intontiti dal letargo. Ma poi sull’onda della gagliarda la donna-maiale si lancia con una furia insospettata, afferra la gonna a piene mani e mentre la strattona soffia come un cinghiale mostrando insospettate gambe e cosce tornite. Il grande liuto ape-regina guida la danza di quello sciame, ora una saltellante allemanda e una sfrenata e disarticolata sarabanda, e quando il maestro infila la corrente i ballerini danzano in tondo tenendosi per mano. E nessuno ha tempo per osservare Margaret che non ha lasciato la sua postazione accanto all’oste. Da un pezzo il suo pelo è un insieme di chiazze madide, qui e là dei ciuffi sembrano asciutti ma appaiono dritti e tesi in modo innaturale. Ha il volto disfatto da una ressa di emozioni che non riesce più a comprimere, da un po’ muove le dita impellicciate mimando sgraziatamente i gesti sapienti del liutista, alza il mento e schiude la bocca. Finché, quando la musica cessa di colpo, con uno strappo secco sulle corde, che è una parola d’ordine per quell’esercito di matti, e tutti i ballerini cadono di colpo, chi sulle seggiole chi direttamente a terra, come se il vento li avesse lasciati di colpo a se stessi, in quell’istante brevissimo che precede le rida e gli schiamazzi, la gola di Margaret si contrae, le è impossibile evitarlo, così di seguito la bocca si apre, rovescia gli occhi e lancia un verso.

E’ un suono così improvviso e penetrante, animalesco e inarticolato, quasi un muggito ma più acuto. Quando l’infelice si accorge di sé, lo strozza in un raglio. Non c’è nessuno che possa trattenere, dopo l’iniziale sgomento, uno scoppio irrefrenabile di risa, che non cessa anzi aumenta quando il nano, rotolandosi dal ridere, imita il verso. Persino il maestro solleva un sopracciglio e piega la bocca amara. La derisione generale si abbatte sulla ragazza-animale con la potenza di un dardo o di una mazza. Oscilla su se stessa, sotto gli occhi indifferenti dell’oste che ha poggiato la guancia sul pugno chiuso e ha solo voglia di andare a dormire. Ma si controlla, si controlla, è scossa a tratti da fremiti, si è un po’ incurvata ma ha ripreso il suo inutile lavoro ( ora è chiaro ) su quei boccali incrostati. Il chiasso si spegnerà, pure le risa, la notte chiama al sonno e i commensali vanno infatti a raggiungere uno dopo l’altro i loro giacigli. Anche Ben sparisce e Dowland è l’ultimo a lasciare la scena. Si alza con una certa scontentezza nel cuore. I facchini gli han già depositato i bagagli nella sua celletta dove potrà riposare, se potrà, e sa già che non potrà. Si alza e osserva la sala immersa in un disordine irreale. Sulle pareti le ombre continuano a danzare selvaggiamente, anche ora che la sala è vuota e la musica del liuto tace. Una nidiata di demoni lo accompagna da sempre, fa da sfondo alla sua vita. Lo stare là, impalpabili come ombre, è la loro sottile perfidia, poiché Dowland sa bene che un giorno verranno a prenderlo. Istintivamente gli cade la mano sull’elsa dello spadino, prima di infilare l’oscurità del corridoio. Con l’altro braccio avvolge la pancia fragile del liuto e avanza. La luce è poca e a metà del cammino, ad una svolta, il buio lo avvolge interamente. Perché non ha trattenuto Ben con sé?

Lo avrebbe guidato con una lanterna, avrebbe potuto contemplare la sua nuca nell’arco di luce saltellante. Muove ancora qualche passo, tastando il terreno. O morte, tenebra infinita.

Stringe a sé ancora di più il suo prezioso liuto, le doghe leggere della cassa quasi scricchiolano coinvolte loro malgrado in quella tensione lugubre che fiacca il loro padrone. Ora tende davanti a sé il braccio con la mano aperta. Una corrente sottile e fredda lo raggiunge da uno spiraglio invisibile. Il silenzio innaturale lo circonda, una punizione d’inferno, previsione del suo domani, così pensa. Lo circondano nell’incubo liuti di fogge diverse e diverse dimensioni: liuti francesi piccoli e sinuosi, liuti tedeschi tristi e grigi, eleganti liuti di Bologna, gigantesche bandore alte come alberi di cui le corde non sono che rami diritti. E tutti quegli strumenti tacciono, le corde visibilmente allentate oscillano al vento freddo e pungente, senza produrre suono di sorta.

E i caviglieri, dove le corde si intrecciano e si aggrovigliano a centinaia e in certi grandi e mostruosi liuti a centinaia di migliaia, rivelano fogge demoniache che strabuzzano gli occhi, piegano le labbra orribilmente, a volte paiono visi anneriti di marinai, che nulla promettono di buono, col viso scheggiato, il naso o le orecchie perforate dai lunghi piroli delle corde.

Niente di più inquietante, sinistro o ridicolo quanto una danza priva di musica che l’accompagni, e così uno strumento musicale che, pure scosso, pure se occasionalmente e casualmente scosso, non produca alcun rumore. La corrente d’aria fredda cessa all’improvviso, e questa assenza lo distoglie dalla sua fervida fantasia. In fondo al corridoio oscilla una piccola luce che gli viene incontro. E’ Ben! il suo piccolo Ben che viene in suo soccorso con un piccolo lume. Il piccolo sorride mentre Dowland lo accarezza sul collo e sulla nuca. Conducimi, Ben, portami in salvo. Ben s’avvia in un labirinto oscuro di svolte e di scale. Il pavimento ora sale ora scende, a volte sembra scabro e irregolare, e a Dowland sembra di percorrere un lungo intestino, il ventre di un animale mostruoso. Eppure deve in qualche modo ingannarsi: come può una costruzione, apparsa di giorno, sotto la pioggia, così modesta, risultare di notte smisurata al suo interno? Ben socchiude all’improvviso davanti a lui una porta, e apre la cella che l’oste ha preparato per il suo illustre ospite. Una modesta luce vi brilla, quanto basta per avere cognizione di uno spazio dove l’angoscioso desiderio di Dowland, un lago intero scuro e notturno, tracima violento e improvviso, incontenibile, rabbioso, ansimante. Il liuto cade rovinoso e squilla, è tanto che non si spezzi. Ben è afferrato per le spalle, non ha tempo che di avere paura, paralizzato dalla forza devastante che su lui minaccia di straboccare. Le mani convulse, quelle stesse mani che affusolate accarezzavano angelicamente le corde poco prima, strappano i calzoni del ragazzo che ha dovuto mollare il piccolo lume. E questo cadendo sbieco affoga lo stoppino nell’olio, e smorza la luce. Ben geme, ma non c’è spazio: su di lui preme la grande figura del maestro. Che con la sinistra furiosamente sbottona gli eleganti calzoni per estrarre il suo lungo coltello. Nella furia ha appena il tempo di percepire il bagliore della carne messa a nudo contro cui ora allunga la sua verga nera.

Signore, che accade, demonio che fai? Il cuore si impenna, e allenta la presa stretto dall’angoscia. Potrebbe darsi che siano, i suoi occhi, semplicemente ingannati dal tenue gioco delle fiammelle che affumicano l’aria. Eppure questa è la visione: contro quella pelle bianca e luminosa il suo coltello è apparso più nero della pece più nera dell’inferno. Già lui è insinuato dal demonio, che stia già trasformandosi in demonio? Lo lascia, lo lascia di colpo, e Ben che sente allentarsi la stretta ritrova se stesso, tira su i calzoni piangente, fugge via dalla stanza.

Trambusto, confusione, un sudore freddo percorre la schiena di Dowland, e allora si raffazzona alla meglio, raccoglie il piccolo lume di Ben, in preda alla paura ( la forca, la forca, ricordatelo, John Dowland ) e corre a inseguirlo, a calmarlo, ucciderlo, perdio, ora che lo afferra una rabbia cieca e stringe convulso lo spadino. Sale, scende, gira, fiuta l’affannosa corsa della preda, la scia di lacrime e di singhiozzi, di passi e colpi…sveglierà la casa, mi scopriranno! Ora desiste, e il ragazzo con la sua onda sonora di umiliazione e di paura scompare nell’ombra. Nessuno è in vista e nessuno potrà raccontare alcunché. Può tranquillizzarsi, sfiora la borsa dei ducati sonanti, torna indietro. A ogni passo si calma sempre più, ritorna in sé, ritorna nella sua malinconia.

E così si accorge finalmente che la casa è piccola, e non c’è nessun labirinto davanti a lui. La sua cella è dietro l’angolo, la fioca lucetta che la illumina lo richiama facil-mente e senza fatica la raggiunge. Si chiude dietro la porta, poggia il lume di Ben, si guarda in giro. La prima cosa che nota gli sembra persino ovvia, gli sembra di averla come dire sempre saputa: il liuto è scomparso. Farewell. Era un bel liuto di Bologna. Al diavolo. Chiude la porta della cella. Può averne quanti ne vuole, di tutte le fogge che crede, e quindi al diavolo. Dovrebbe dare importanza ad un pezzo di legno digrossato da un artigiano? Lui è un artista, sulla punta dei suoi polpastrelli si raccoglie, quando vuole, quando canta, la sua anima grande, vasta. Ai mediocri i liuti intarsiati, i liuti pazzescamente inchiavardati, decorati da infiniti ponticelli che non portano da nessuna parte se non li anima un grande. E lui lo è. Farewell, quindi, a buon rendere la dolcezza del suono del suo liuto migliore, il suono rotondo e caldo del mezzogiorno. Qualcun altro se lo goda, da stolto, oltre che da ladro. Le sue mani potrebbero percorrere la tela di un ragno e farla suonare. E mentre lo pensa, apre uno dei suoi bauli, ed estrae la piccola vihuela spagnola. La cassa piatta e rigida risveglia la nostalgia della curva del liuto panciuto. Traccia due note, ma lo strumento è del tutto scordato. Disarmonico ed arrogante. Se devi spuntarla tu, nel futuro, pensa, allora davvero Farewell. Addio al liuto e anche al suonatore. Eppure… chi può avere “ereditato” il suo liuto, spoglio s’intende della sua arte? Mette via la vihuela: ora comprende. S’insinua una angoscia fredda e lucida, quasi calma: chi ha rubato il liuto ha assistito alla scena, e forse neppure passava là per caso. Pensa queste cose mentre si sfila gli stivali. Ben, ragazzino, avessi portato un po’ d’acqua calda ad uomo stanco. Pensa proprio questa parola, uomo. Quasi la pronuncia.

Ora che nessuno può vederlo, deposta la vihuela, privo del suo liuto, distratto, banale a se stesso, ripetitivo, maniacale, non è che un uomo. I piedi arrossati, madidi, hanno fatto svanire l’arte.

Lo assale una stanchezza ovvia, che lo costringe al giaciglio. E la forza delle cose lo costringe a sdraiarcisi. A dormire. Dormire. L’Io del più grande liutista della terra per un po’ svanisce, per riapparire a tratti in un improvviso fremito delle membra, nella palpebra che svela di colpo l’iride, nell’occhio fisso. E poi di nuovo svanire. Per lunghi tratti di tempo non se ne sa nulla. Dell’Io nessuna traccia, sparito proprio. Neppure di quell’Io dislocato, quell’io differito, in trasferta, quasi irrigidito come un mimo in uno spettacolo di saltimbanchi, che occhieggia dalle sigle delle intavolature ( il baule è aperto, e i fogli di musica spuntano fuori ), quell’io di carta macchiata d’inchiostro, neppure di quello può dirsi nulla. Soltanto un poeta, tra i più pedanti, potrebbe conferire con quell’io cartaceo, considerarlo sul serio presente, forse percepire l’Io forte e tenue dell’artista che svolazza sfiorando le corde degli strumenti, gli strumenti anch’essi in riposo, in sonno…ci vorrebbe una dose di romanticismo, nel secolo di Dowland purtroppo assente. Il liutista si gratta un fianco si gira più volte, un po’ russa e un po’ parlotta. Sogna certamente,
ma non sappiamo dei suoi sogni, e neanche a lui, al risveglio, sarà dato di ricordarli. Ed è già mattina, e quel risveglio è adesso. Dowland si sveglia di colpo, si alza sul letto.

Quella faccenda sta ancora lì con lui, sparita con l’Io, è ricomparsa: il liuto no, quello è proprio svanito. Raccogliere le idee è un attimo, la scarsa igiene del tempo anche l’aiuta, ed è subito in piedi. Aggiusta il farsetto e riflette il suo volto in un piccolo specchio francese. Si tira la barbetta rossiccia. E’ già mortalmente triste. Tira via un’imposta: una vecchia pergamena sdrucita separa la campagna grigia, dilavata, dalla cella del più grande liutista di ogni tempo.

Il trambusto, o meglio uno scricchiolio diffuso, rivela il rianimarsi dell’osteria. Gli fosse ancora data l’infanzia. Ricorda benissimo la quiete dei campi, in lontananza macchiati di greggi silenziose, e lui chiuso nella musica, col piccolo liuto che gli ha donato il padre. Di nient’altro ha bisogno, seduto nell’erba, di nient’altro che della musica. Nient’altro, nient’altro… e quasi piange di rabbia mentre gli bussano alla porta. Ma non apre perché attirato dallo spettacolo che gli offre la finestra. E’ combattuto: qui bussano piano e ribussano ancora, ma di là lui osserva Margaret. Qualcuno, non sa dire chi, la tira via con una cavezza, quasi fosse un’animale. La bocca della ragazza-animale si contorce, ma Dowland non sente alcun suono articolato, né un ringhio o un muggito. Ancora bussano, piano, e la ragazza è tratta in ginocchio, le strappano la veste lurida e sul mantello che le ricopre la schiena si abbatte ( e questo lo sente ) un frustino. La battono selvaggiamente. Ben! nella stanza il ragazzetto. Ha il viso annuvolato, non ha più voglia di ridere. E’ venuto a prendere i bagagli, e a un cenno leggero del maestro se li tira via per il corridoio. Il maestro lo segue, lancia l’ultima occhiata alla finestra, si chiude dietro la porta. Nel refettorio, grande e osceno, quasi gonfio, sul tavolo centrale, giace il suo liuto. A Dowland non tocca che raccoglierlo, avvolgerlo nella pelle, riporlo stancamente nel baule più grande, donare una moneta all’oste sussiegoso, che in una selva di inchini si scusa per il furto maldestro. Farewell. I fatti, ora, ammettiamolo, dilagano sconnessi, si sovrappongono, evaporano, si diluiscono. La carovana perenne del liutista riprende il cammino, e ancora il nano, vinta la sbornia, la può guidare e il riformato in coda saggiamente conchiudere. E il frustino cadere, ancora e ancora, sulle spalle di Margaret, che, a occhi chiusi, non può che prenderli e tacere.

Nessun commento: