venerdì 8 maggio 2009

Speciale Maurizio Grandinetti: intervista di Empedocle70 parte seconda

Empedocle70: Ho notato in questi ultimi anni un progressivo avvicinamento tra due aspetti della musica d’avanguardia, da un lato l’aspetto più accademico e dall’altro quello portato avanti da musicisti ben lontani dai canoni classici e provenienti da aree come il jazz, l’elettronica e il rock estremo come Fred Frith, John Zorn, la scena downtown newyorkese e alcune etichette di musiche elettroniche come la Sub Rosa e la Mille Plateux. Che ne pensa di queste possibile interazioni e pensa che vi sia spazio anche per esse in Italia?

Maurizio Grandinetti: La domanda mi mette in difficoltà, perché da una parte riconosco e mi entusiasmo quando culture, musiche e altro si fondono con una propulsione creativa. Dall’altra però temo la confusione. Le etichette soprattutto creano confusione. Chi può dire cosa è accademico? Quando Frith compone mi sembra (con tutto il rispetto e l’amore per il musicista) più classico e accademico di molti compositori che vengono da scuole di composizione. E succede spesso il contrario: quanti improvvisatori usano materiale compositivo (scale, patterns, strutture, modelli)? Si tratta fondamentalmente dell’eterno dilemma: l’improvvisazione che usa l’energia creativa di un momento contro la composizione che usa la creatività in un progetto. Ecco che mi sono di nuovo perso…

E.: Sembra essersi creata una piccola scena musicale di chitarristi classici dediti a un repertorio innovativo e contemporaneo, oltre a lei mi vengono in mente i nomi di Marco Cappelli, David Tanenbaum, David Starobin, Arturo Tallini, Geoffrey Morris, Magnus Anderson, Elena Càsoli, Emanuele Forni, Marc Ribot con gli studi di John Zorn … si può parlare di una scena musicale? Siete in contatto tra di voi o operate ciascuno in modo indipendente? Ci sono altri chitarristi che lei conosce e ci può consigliare che si muovono su questi percorsi musicali?

M.G.: Si, io sono in contatto con diverse delle persone da Lei citate. Ognuno di noi lavora ad un ideale di chitarra e la chitarra oggi è il risultato di tutte queste diverse esperienze. Prediligo sempre i musicisti che aggiungono qualcosa di personale (nuove composizioni, nuovi strumenti e nuove idee) a quelli che tendono a riprodurre un modello. Di chitarristi di cui seguo con interesse il lavoro ce ne sono tanti: Tom Pawles, Seth Josel, Nando di Modugno, Domenico Caliri (di cui in questi giorni sto registrando una composizione), Pablo Marquez. Un musicista incredibile che suona la chitarra si chiama Stephan Wittwer, cercatelo e scoprirete un universo. Ancora il bassista francese Kaspar Toeplitz.

E.: Ascoltando il suo disco Equivoci con le musiche di Cage e Dowland ho pensato al fatto che il Rinascimento cercava note chiare e pure e voci coerenti e accumulabili, mentre la nostra società sembra accettare l’idea che le cose non sono degradate ma arricchite dal rumore … il rumore in un certo senso sembra sostenere letture molteplici e aperte e un po’ questo si avverte sia in Equivoci tra il contrasto agrodolce di Cage e Dowland e il disco dell’Ensemble Phoenix Basel dedicato alle musiche di Buess, Hodgkinson e Feiler .. è così o è solo una mia stravaganza?

M.G.: Il rumore prima, e quello che poi è diventato lo spettro del suono poi, offre una via di fuga dall’armonia (consonante, dissonante, seriale e di ogni altro tipo) intesa come gerarchia dell’organizzazione dei suoni. Di questa fuga aveva bisogno Dowland (che inventava sul liuto molti effetti sonori) come ne ha bisogno Lachenmann o Morricone.

E.: Quale significato ha l’improvvisazione nella sua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

M.G.: Dicevo sopra che in questa domanda mi perdo sempre. Il repertorio classico è meno codificato di quello che si pensa, soprattutto quando gli interpreti lavorano spalla a spalla con i compositori. Nell’ultimo anno, ad esempio, ho lavorato con compositori come Phil Niblock o Kaspar Toeplitz, Richard Barrett, John Duncan o Volker Heyn che integrano con sensibilità e intelligenza l’identità dell’esecutore e del compositore e non hanno un’idea dell’opera come di un progetto chiuso. E il jazz può essere meno libero di quanto ci vogliono far credere. Abbattiamo tutte le etichette e prepariamoci ad assaporare frutti musicali sempre nuovi.

E.: Ascoltando la sua musica ho notato la tranquilla serenità con cui lei si approccia allo strumento indipendentemente dal repertorio, da con chi sta suonando, dal compositore, dallo strumento che lei adopera dimostrando sempre un totale controllo sia tecnico che emotivo, quanto è importante il lavoro sulla tecnica per raggiungere a questo livello di “sicurezza”?

M.G.: Il lavoro tecnico si fa soprattutto per imparare e io sono eternamente alle prese con questa fase di apprendimento. Anche perché suono sempre chitarre diverse. Ma la sicurezza che riesco a gestire è quella che viene dall’esperienza e dalla consuetudine che ormai ho con il palcoscenico. E’ solo su quel bagaglio che conto.

E.: Luciano Berio ha scritto “la conservazione del passato ha un senso anche negativo, quando diventa un modo di dimenticare la musica. L’ascoltatore ne ricava un’illusione di continuità che gli permette di selezionare quanto pare confermare quella stessa continuità e di censurare tutto quanto pare disturbarla”, che ruolo può assumere la musica contemporanea in questo contesto?

M.G.: Quello di spingere a riletture nuove e spiazzanti della tradizione. Il paradosso per il quale la tradizione è una storia di continuità fatta da infinite fratture. Oltre a Berio, in questo tipo di pensiero per me il grande Maestro è Luigi Nono. I suoi scritti sono quelli a cui torno quando avverto stanchezza o sfiducia. Riescono sempre a ridarmi freschezza. Consiglio la lettura di “La Nostalgia del Futuro”.

E.: Oltre a svolgere l’attività di concertista lei è anche docente di chitarra, come riesce a combinare queste due attività? A volte si ha l’impressione di una dicotomia tra le due “carriere”:che un concertista non riesca ad essere allo stesso tempo anche un insegnante…

M.G.: Al contrario: non capisco come si possa insegnare quando si è interrotto, perso o trasformato il rapporto di apprendimento permanente a cui il suonare attivamente costringe. Concepisco il mio lavoro di insegnante come quello di un catalizzatore di esperienze. Offro ai ragazzi le tante esperienza da me fatte: sta a loro sceglierle e usarle come vogliono.

continua ...

2 commenti:

PEJA ha detto...

La prima risposta mi sembra veramente intelligente: è vero che nella nostra epoca sia veramente difficile uscire da manierismo ed accademismo. A volte anche gli eccessi di creatività sembrano stolture. Per uscire dalla massa occorrono progetti veramente geniali...

Andrea Aguzzi ha detto...

decisamente! Maurizio ha dato una risposta veramente esaustiva.. l'originalità non coincide con l'eccesso o con il desiderio spasmodico di qualcosa di sempre nuovo (sempre se nella musica si può inventare qualcosa...)