giovedì 16 luglio 2009

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte prima


La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il suo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suona o ha suonato?

Ho incominciato a studiare musica in famiglia, sotto la guida di mio zio Francesco Bologna, ottimo clarinettista, che suonava anche la chitarra sopratutto come supporto alla sua attività di compositore e orchestratore, cioè per verificare le armonie che scriveva. A quei tempi si studiava innanzitutto teoria e solfeggio, così io intrapresi gli studi senza ancora sapere che strumento avrei suonato. Dopo alcuni anni, quando il mio maestro considerò ultimati gli studi teorici si cominciò a parlare in famiglia dello strumento che avrei potuto suonare e proprio in quei giorni, in barba a tutte le problematiche che i miei si ponevano circa la decisione da prendere, io presi dei pezzi di legno e mi costruìi una rudimentalissima chitarra. Me la ricordo ancora: aveva per corde i lacci con cui si legavano le confezioni delle “pastarelle”, fissati con dei chiodi. Mi misi a suonare subito... (ricordo che i primi intervalli che estrassi dal curioso arnese erano delle quarte). Questo bastò ai miei per capire che avevo già scelto, così dopo qualche settimana una sera vidi arrivare mio zio con un grosso pacco legato alla sua moto. Mi aveva comprato una “Estudiantina”. Cominciai quella sera stessa ad armeggiare prendendo ad orecchio delle melodie e dopo poco tempo mio padre mi comprò il metodo “Anzaghi” su cui studiai per i primi anni sempre sotto la guida di mio zio.
Da allora sono passati più di quarant’anni e ho avuto varie altre chitarre. Ho un bel ricordo della Gibson GS Custom che ho suonato dai sedici ai vent’anni quando, oltre a studiare il repertorio classico. facevo esperienze di “rock progressivo”. La vendetti nel 1978 (e me ne pento ancora) perché non prevedevo più di utilizzarla e per potermi comprare una chitarra da concerto di Alan Wilcox. Da allora ho sempre usato le Wilcox. La prima ce l’ho ancora ed è in cedro, con diapason 66,6, ma dal 1995 preferisco usare un suo modello in abete con diapason 65. Quando mi si presenta l’occasione provo (e spesso apprezzo) chitarre di altri liutai, ma non riesco a sentirmi a mio agio altro che con le chitarre di Alan, sopratutto per quanto riguarda le qualità timbriche e di tenuta del suono
.

Come è nato il suo interesse verso il repertorio contemporaneo e quali sono le correnti stilistiche nella quale lei si riconosce maggiormente?

Sono sempre stato curioso rispetto a qualsiasi genere e sperimentazione musicale.
Al mio primo maestro sono grato per avermi lasciato molta libertà, e per non avermi imposto restrizioni stilistiche. Così mi incominciai ad interessarmi alla musica contemporanea quando avevo all’incirca 18 anni, in maniera molto naturale direi. Del resto avevo suonato diverse cose del repertorio classico, e avevo voglia di nuove atmosfere. Avevo seguìto un pò l’evoluzione del jazz ed erano gli anni in cui il free (che si serviva di materiale fondamentalmente atonale) era considerato ormai un fatto storicamente compiuto.
Anche nel pop si ascoltavano sperimentazioni che esulavano vistosamente dal campo tonale (basti pensare “Ummagumma” o alcuni episodi di “Atom heart mother” dei Pink Floyd). Perfino le colonne sonore ci avevano abituato alla continua convivenza tra materiali di tipo classico-romantico misto a musica atonale, dove la “rumoristica” veniva continuamente mixata con le sonorità più ortodosse. Aggiungerei che tutte le forme artistiche del ‘900 negli anni ’70 avevano ormai percorso un lungo processo evolutivo, e i dibattiti sull’arte contemporanea, sia con ammirazione che con toni da scomunica erano costantemente presenti nella società. Insomma, per una serie di motivi, i tempi erano più che maturi perché chi si occupava di musica, sopratutto se giovane, rivolgesse l’attenzione verso la nuova musica. Nei pezzi che scrivevo dai quindici ai vent’anni, mi ricordo bene che alternavo armonie tonali (ma senza rispettare le loro tradizionali funzioni armoniche) ad accordi più moderni, di cui sperimentando il fascino dalle loro dissonanze e delle “tensioni armoniche” non risolte. Non a caso, nel periodo in cui cercavo un maestro di chitarra per fare un salto di qualità, mi imbattei nel brano “Las seis cuerdas” di Alvaro Company e pensai: “Se in Italia c’è uno che suona e compone così devo andare a conoscerlo subito”. E così feci, dando così iniziò alla mia “avventura” fiorentina che dura ancora.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda a proposito di influenze o correnti stilistiche... non so... La mia curiosità mi ha spinto ad interessarmi delle opere di molti autori. Mi ricordo la sorpresa e l’incanto nell’ascoltare le musiche di Edgar Varese (ricordo ancora bene l’esperienza del primo ascolto di “Deserts”) o dei “Gurrelieder” di Arnold Schönberg (e in generale l’interesse con cui leggevo i suoi scritti teorici). Mi intrigavano molto le composizioni-improvvisazioni di Sylvano Bussotti, e sopratutto il libro “Silenzio” di John Cage, che portai sempre con me per un periodo come fosse una Bibbia. E poi apprezzavo la polivalenza stilistica di Britten e di Dallapiccola, autori che dimostravano di conoscere tutta la storia della musica e di servirsene per creare qualcosa di nuovo, ma... nel loro linguaggio, operando una loro sintesi. E nello stesso tempo mi stupivo per le opere di Ravel che sentivo modernissimo nella sua concezione musicale (checché se ne dicesse negli anni post-Darmstadt...). Ecco, io ho ammirato le musiche di molti autori del ‘900 apprezzandone l’originalità e la sapienza, ma non mi sono mai sentito fan di qualcuno di loro, né tantomeno parte di una corrente. Ho sempre avuto il piacere di cercare un mio stile, operare una mia sintesi, ascoltare qualcosa che venisse dal mio interno... In effetti questi compositori citati, insieme a tanti altri, sono stati catalogati in gruppi e correnti stilistiche dagli storici spesso a-posteriori, ma credo che in molti casi anch’essi si sentissero autonomi, “cani sciolti”... un pò come me.

Io mi sono avvicinato alla sua musica ascoltando la prima volta Due Canzoni Lidie qual è il suo rapporto con questo brano? Glielo chiedo perché credo siano le sue musiche più interpretate…

“Due Canzoni Lidie ” è senzaltro il mio pezzo più fortunato, e lo fu fin dalle prime bozze. L’idea di uno “Studio in sette” (così avevo chiamato la prima stesura) era vincente fin dal progetto, grazie ad alcune caratteristiche che lo identificano, come l’ uso di molti suoni armonici e di alcuni campi armonici in sequenza con forte presenza del colore lidio. E poi c’era un “taglio” chitarristico particolarmente indovinato: una formula ritmica a corde a vuoto che dava modo alla sinistra di produrre diversi elementi melodici, ornamentali, contrappuntistici, spaziando in molte posizioni. Queste furono le principali caratteristiche di base in cui credetti subito e su cui improvvisai a lungo per il primo periodo, in cerca di idee tematiche e sviluppi. Esplorando, vagando, giocando con questi materiali ancora in embrione, nel giro di qualche mese incominciai a concretizzare delle bozze scritte. Mi ricordo che in quel periodo andai a Genova per sentire un concerto di Julian Bream (eravamo attorno al 1981) e lasciai in macchina la teca con tutti gli appunti; il brano era già a un discreto punto. Ebbene me lo rubarono! Per fortuna mi ricordavo bene il senso del pezzo ed alcune parti, così ricominciai a scriverlo da capo. Tutto il processo compositivo, dalle prime idee all’ultima stesura, fu abbastanza lungo (attorno a tre anni), sia perché interruppi varie volte, sia perché in quegli anni non avevo molta velocità di scrittura. Ricordo ancora con piacere i complimenti che Alvaro Company e il mio maestro di composizione Gaetano Giani-Luporini, mi fecero nell’ ascoltare le varie stesure del lavoro. Poi il liutaio Andrea Tacchi mi chiese una registrazione da portare con sé in un festival di chitarra in Francia per fare conoscere il brano ai partecipanti. Dopo pochi giorni mi telefonò dicendomi che Leo Brouwer aveva sentito la composizione e gli era piaciuta molto, quindi avrei fatto bene a contattarlo. Così lo chiamai immediatamente e lui mi offrì una lettera di presentazione per una casa editrice di mia scelta. Io quasi non ci credevo... e scelsi la Max Eschig.
Adesso sono passati circa 25 anni dalla stesura definitiva di “Due Canzoni Lidie ”. L’ho suonato un ‘infinità di volte. All’inizio lo studiavo poco, come se la forza d’inerzia che lo aveva generato me l’avesse “installato” nella memoria profonda. Dopo un pò di anni ho incominciato a studiarlo quasi come se fosse un pezzo non mio. Adesso curo molti particolari riguardanti le atmosfere e la tecnica strumentale per separare bene le voci, e sento continuamente che posso migliorarne l’esecuzione, rendendolo sempre più intenso, e sempre con più consapevolezza. In tutti questi anni ho cambiato pochissimi aspetti dell’interpretazione e niente delle note; ho solo corretto alcuni errori di stampa. Insomma lo vedo ormai un pò come fosse il pezzo di un altro, ma con una familiarità diversa ovviamente, perché l’ho “visto” nascere. Lo so che sarebbe più appropriato dire che l’ho “fatto” nascere, ma questo è un mio vecchio modo di sentire l’atto del comporre: come se ascoltassi quello che il pezzo vuole dire, o dove vuole andare, quindi come se lo aiutassi a manifestarsi... Anche se sono daccordo con Berlioz nel dire che nella composizione c’è “più traspirazione che ispirazione”, credo che in quel periodo di lavoro in cui il brano viene concepito ci sintonizziamo con una parte di noi così intuitiva, profonda, misteriosa, da sembrare davvero di avere un collegamento con un’altra realtà o entità.

.. continua domani ...

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