venerdì 17 luglio 2009

Intervista a Nuccio D'Angelo di Empedocle70 parte seconda


Berlioz disse che comporre per chitarra classica era difficile perché per farlo bisognava essere innanzitutto chitarristi, questa frase è stata spesso usata come una giustificazione per l’esiguità del repertorio di chitarra classica rispetto ad altri strumenti come il pianoforte e il violino. Allo stesso tempo è stata sempre più “messa in crisi” dal crescente interesse che la chitarra (vuoi classica, acustica, elettrica, midi) riscuote nella musica contemporanea. Lei come compositore e chitarrista quanto ritiene che ci sia di veritiero ancora nella frase di Berlioz?



In effetti abbiamo assistito nel XX secolo ad una incredibile fioritura della letteratura chitarristica. Questo è avvenuto non solo per l’interesse che personalità artistiche eccezionali come Segovia e Bream hanno catalizzato su questo strumento, ma anche per un’esigenza di sonorità nuove e per una crescente curiosità-esplorazione timbrica che ha coinvolto moltissimi compositori. E va considerato anche che la chitarra, in quanto strumento relativamente nuovo, era ancora in gran parte da scoprire. Sono quindi d’accordo nel dire che l’affermazione di Berlioz è stata smentita dalla storia. Nel ‘900 praticamente tutte le grandi firme della composizione hanno dedicato almeno qualche pagina alla chitarra, producendo non pochi capolavori. Basti pensare a “Nocturnal” di Britten o “Quatre pieces breves” di Martin o, in Italia, alle musiche per chitarra (solistiche e da camera) composte da Petrassi. E si potrebbero citare Villa-Lobos, Ginastera e Chavez in Sud-America, o Henze, De Falla, Walton in Europa; e ancora in Italia Berio, Bussotti, Donatoni e così via... Il fatto di non conoscere lo strumento “da chitarrista” secondo me può generare soluzioni e ricerche particolarmente originali, può aprire orizzonti nuovi. Diciamo che, teoricamente (e molto schematicamente), un compositore “troppo-chitarrista” rischia di essere condizionato da combinazioni manuali agevoli e idiomatiche frequentate nei brani di repertorio, e di fermarsi a soluzioni comode ma anche non troppo originali. Un compositore non-chitarrista invece può avere delle esigenze musicali che richiedono trovate strumentali più nuove e coraggiose, e può sviluppare con più oggettività le sue idee musicali senza vincoli dati dalla visione strumentale. D’altra parte si può anche verificare che un compositore non conosca abbastanza lo strumento, e anziché osare percorrere nuovi territori scriva delle cose troppo semplici, di sicura fattibilità, quasi “per non sbilanciarsi”... rischiando così di sfruttare poco alcune ricchezze della chitarra come le sue possibilità polifoniche o il gioco delle risonanze. Dico questo perché a volte mi imbatto in brani in cui la chitarra è trattata in forma quasi monodica! È chiaro che l’ideale sarebbe che il compositore fosse allo stesso tempo dotato di ispirazione, di tecnica compositiva e di una tale conoscenza dello strumento per cui sta scrivendo, da sviluppare bene il materiale scelto e contemporaneamente sfruttare al meglio la sua collocazione strumentale. Ideale realizzato magnificamente da Alvaro Company, esponente di spicco di un importante periodo di fioritura musicale nel dopoguerra, impegnato in ricerche compositive di prim’ordine nell’ambiente fiorentino che faceva capo a Dallapiccola, insieme a compositori del calibro di Bussotti, Prosperi e Smith-Brindle, ma anche eccellente chitarrista, che produsse nel 1960 “Las Seis Querdas”, brano che testimonia una ricerca talmente coraggiosa che Petrassi diceva “impossibile scrivere oggi per chitarra senza avere sul leggio “Las Seis Quaerdas”. Comunque ci sono troppe variabili e combinazioni tra ispirazione e intelligenza compositiva, tra conoscenza della composizione e dello strumento per cui si sta scrivendo, e del resto il modo di sviluppare l’una o l’altra idea musicale cambia di caso in caso e di persona in persona... Insomma, si può parlare solo per grandi linee...

Come affronta da compositore il difficile compito di scrivere per strumenti che non suona o ensemble che non conosce a fondo?

Cerco sempre di dare la precedenza all’idea musicale e al suo sviluppo. Penso che un brano scritto bene dovrebbe suonare bene anche con differenti strumenti (in questo J. S. Bach ha insegnato molto). Insomma, credo in una sorta di oggettività musicale.
Nei brani per chitarra verifico spesso personalmente che ciò che sto componendo sia suonabile e dia un buon risultato sonoro. Per quanto riguarda le musiche che scrivo per altri strumenti, innanzitutto se non li conosco bene mi documento, ma a volte mi servo anche della collaborazione di amici e colleghi maestri dello strumento per cui sto scrivendo, sentendo l’effetto sonoro, chiedendo loro se c’è qualcosa di scomodo o antistrumentale, pronto a correggere e cambiare qualcosa, cercando però di non tradire l’idea fondamentale del brano. Per esempio nel caso di “Quattro Travestimenti” (per flauto dolce e chitarra) ho lavorato fianco a fianco per diversi mesi con David Bellugi (dedicatario del lavoro), ed altrettanto ho fatto per “Spazio” (per fagotto e pianoforte) in cui le parti venivano verificate spesso con gli interpreti (il duo Franco Perfetti - Maria Grazia Dalpasso), e questo è successo anche nella stesura di “Introduzione e Aria” in cui fu il violinista Pietro Horvat a darmi dei consigli.

Ascoltando la sua musica mi sono fatto l’idea che lei venga da una grande molteplicità di ascolti e di influenze, come gestisce questi frammenti di memoria musicale nelle sue composizioni? Li utilizza consciamente o …. li lascia liberamente fluire?

Do molta importanza all’intuizione, al mettermi “in ascolto” mentre compongo. E in questa fase vengono a galla memorie ed esperienze musicali che il tempo ha metabolizzato, trasformato e rigenerato... Così, per esempio, negli anni novanta in diverse occasioni sono venute a galla memorie di esperienze musicali dei miei trascorsi “elettrici”. Naturalmente col tempo riesco sempre meglio a valutare queste influenze, a prenderne coscienza, a dosarle ed utilizzarle con coerenza.

Come è nata la sua amicizia con Leo Brouwer? Ho notato che avete “incrociato” le vostre strade diverse volte .. lei gli ha anche regalato una sua composizione e ha più volte suonato le sue musiche …

Con Leo ci siamo conosciuti - come dicevo - per telefono, quando lui si complimentò per “Due Canzoni Lidie ” e mi promise di aiutarmi per la pubblicazione. Successivamente ci incontrammo saltuariamente a Firenze nel periodo che va all’incirca dal 1987 al 1993, quando collaborammo in un progetto ideato da Paolo Paolini: la “Guitar Symphonietta”, orchestra di chitarre in cui Brouwer era ospite in qualità di compositore e direttore. Lui veniva una o due volte l’anno per dirigere i nostri concerti, tenendo anche qualche seminario a Firenze. Si lavorava insieme per provare, scegliere i pezzi del repertorio, mentre si facevano grandi cene con grandi risate... Fu un periodo molto stimolante, che fu documentato dal cd “Leo Brouwer conducts Guitar Symphonietta”. In questa occasione incidemmo i suoi brani originali “Acerca del cielo, el ayre y la sonrisa” e “Paisaje Cubano con rumba” e suonammo in tutti i nostri concerti le sue elaborazioni di canzoni dei Beatles “From Yesterday to Penny Lane”, e il suo “Paesaggio Cubano con pioggia”. Fu infatti in quel periodo (1989) che gli dedicai “Corale” (per chitarra, vibrafono e clavicembalo elettronico) come regalo di compleanno. Successivamente mi chiese di scrivere un pezzo per archi, che avrebbe proposto ad alcune orchestre che dirigeva in quegli anni. Nacque così “Due Liriche per archi”, che dimostrò di apprezzare molto. Poi, finita la sua esperienza con l’orchestra di Cordoba e la nostra con la “Guitar Symphonietta” è diventato sempre più difficile incontrarci e adesso ci siamo quasi persi di vista, e mi dispiace.

Ho notato che lei ama Piazzolla. Come si trova a suonare il suo repertorio? Qual è la sua visione del Tango?
Il mio rapporto da interprete con le musiche di Piazzolla nasce nel periodo in cui con la “Guitar Symphonietta” suonammo e incidemmo “Fuga y Misterio” in una intelligente trascrizione di Paolini. Del resto come si può non conoscere quest’autore? Negli ultimi decenni, e in special modo dopo la sua morte, i suoi lavori sono stati oggetto di interpretazioni ed elaborazioni da parte di musicisti di area classica, pop, jazz, per non parlare di miriadi di gruppi che sono nati per eseguire esclusivamente le sue musiche. Se vediamo il ‘900 come un secolo dove le mescolanze e le contaminazioni stilistiche hanno avuto un posto di rilievo (basti pensare alle “scuole nazionali” spagnole, russe, sud-americane fiorite sopratutto nella prima metà del secolo), Piazzolla si pone secondo me come uno tra i musicisti più emblematici di questa tendenza, in quanto ha contribuito come pochi ad abbattere alcune barriere stilistiche, mostrando una rara abilità di comunicare a un pubblico fortemente eterogeneo. In effetti, se osserviamo bene, nella sua musica c’è tutta la passione melodica del romanticismo, ma contemporaneamente col suo bandoneon si esprime con ornamentazioni di tipo barocco, e poi c’è tutta la storia e la sensualità del tango, quindi quell’impronta popolare che ha fatto arrivare i suoi lavori anche nei circuiti della musica leggera. Quindi non posso che apprezzare le sue opere e l’impronta personalissima che ha lasciato.
I miei due omaggi fatti a questo compositore, insieme all’elaborazione di “Cafè 1930” nacquero da situazioni occasionali. In effetti non avevo progettato di dedicarmi ai suoi lavori, ma successe che in un concerto dedicato quasi esclusivamente alle mie musiche si richiedeva un brano di altro autore, che fosse “di confine” e così, dopo aver analizzato alcuni brani di Piazzolla, decisi di optare per una composizione originale, che però contenesse un pò della sua “anima”. Chiamai il brano “Astor, vecchio Astor!” (1994). Un anno dopo il quintetto “Atmos” mi chiese di inserirlo in un concerto insieme a musiche di Piazzolla e Bolling, ma non avevano alcuni degli strumenti richiesti dalla partitura. Così, dopo avere scartato la possibilità di trascriverlo, decisi di comporne uno ex novo che chiamai “La leggenda di Astor”. Per quanto riguarda “Cafè 1930”, stavamo lavorando con Peppe Porcelli al progetto per un cd con composizioni mie e sue, così pensai di scrivere qualcosa che ci desse l’occasione di improvvisare e tirare fuori un pò del nostro feeling dei tempi in cui, negli anni 70, avevamo suonato insieme in vari gruppi pop. “Cafè 1930”, appunto, era perfetto per questo intento, con il suo chorus ottimo per improvvisare. In questa elaborazione utilizzai solo il tema principale (16 battute) muovendomi poi come avrei fatto con una mia idea, cioè lasciando che gli elementi si espandessero e generassero altri materiali, ma sempre legati alla stessa matrice di origine.


.. continua domani ..

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